La vita…in 20 CM

Sapete, io scrivo musica per film. È un bel lavoro, sì, ma anche un po’ una trappola. Perché, quando componi musica per immagini, sei sempre lì a cercare di far piangere qualcuno, o di farlo sentire potente, o romantico… insomma, sei una specie di manipolatore emotivo professionista. Solo che lo fai con le note invece che con le bugie, che almeno è più elegante.

Ma ultimamente mi sono chiesto: perché alcune musiche mi toccano così tanto, mentre altre mi fanno venire voglia di cambiare canale? E ho capito che il segreto è tutto in una cosa molto semplice: il respiro. Esatto, il respiro umano. Non quello che senti sul collo quando sei in metro nell’ora di punta, quello è fastidioso. Parlo di quello che senti nella musica.

Prendete un’orchestra. Quando ascolti una sinfonia, non senti solo i violini, i flauti, i timpani. No, senti anche il violinista che inspira prima di suonare, il pianista che si muove sul seggiolino, o magari il direttore d’orchestra che sbuffa perché il trombone è entrato in ritardo. È in quei piccoli rumori che senti la vita vera, la presenza umana. Quella roba lì, ragazzi, è l’anima della musica.

E sapete dov’è che succede questa magia? Nei venti centimetri tra il musicista e il microfono. Venti centimetri! È la distanza che fa la differenza tra un suono vivo e un suono che sembra uscito da una stampante 3D. In quei venti centimetri ci sono il respiro, il sudore, i calli sulle dita. C’è la vita.

Ecco perché io amo gli strumenti acustici. Non è snobismo, lo giuro. È che quando senti un violoncello suonare, puoi quasi vedere la persona dietro. Ma quando ascolti un sintetizzatore… cioè, chi c’è dietro? Un programmatore? Un algoritmo? È come cercare il romanticismo in un messaggio automatico di WhatsApp: “Ciao! Sei ancora al primo posto nei miei contatti preferiti!” No, grazie.

E non fraintendetemi: uso anche io strumenti virtuali, eh. Sono comodi, pratici, e ti permettono di fare un’orchestra intera senza dover pagare 80 persone (che poi vorrebbero anche la pausa pranzo, questi ingrati). Ma il punto è che gli strumenti digitali, per quanto perfetti, non respirano. Non sbagliano. E sapete cosa rende un musicista umano? Gli sbagli! Quella nota che non era proprio precisa, ma che ha qualcosa di vero, di vivo.

Il problema con la musica digitale è che è troppo perfetta. E la perfezione, diciamocelo, è un po’ noiosa. Voi vi fidanzereste mai con qualcuno perfetto? Uno che non suda, non fa battute sbagliate, non lascia i calzini in giro? No, perché dopo due settimane direste: “Ma questa è una macchina, non una persona!”

Ecco, per me la musica è uguale. Voglio sentire il fiato dell’essere umano, quei venti centimetri tra la bocca e il microfono. Perché lì c’è tutto: la vita, l’anima, il cuore.

Che poi è la stessa cosa per il cinema d’animazione. Io adoro i film animati in 2D, disegnati a mano. Perché? Perché lì vedi la mano dell’artista. Vedi il tratto della matita, i segni del gesto umano, le piccole imperfezioni. Quando guardi un film in 2D, è come se stessi vedendo la persona che ha fatto ogni singolo disegno, fotogramma dopo fotogramma.

Ma quando guardi un film in computer graphic… sì, ok, sono spettacolari, eh! Però è tutto troppo perfetto. Non c’è la mano. Non c’è il gesto. È come un piatto cucinato con un robot: ti sazia, ma non ti scalda il cuore. Nei disegni a mano c’è vita, c’è l’artista che ti dice: “Ehi, guarda cosa ho fatto per te.”

Quindi sì, tecnologia, AI, strumenti virtuali… benvenuti, ma state al vostro posto. Perché alla fine, la musica vera è fatta di persone, non di bit. È fatta di quel respiro che ti fa pensare: “C’è qualcuno, da qualche parte, che sta suonando per me.” E quello, amici miei, è il suono più bello del mondo.

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