Kristian Sensini

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cover kuartets sensini
Kuartets (2020)
Kronos Records KRONKL191
17 brani – Durata: 65’31”

Trattasi di album extra-cinematico scritto in modo a dir poco sommo da un compositore di musica applicata alle immagini, Kristian Sensini (Rocks in My PocketsProvaci ancora Prof!L’esodo). Registrato a Los Angeles nel 2019 dallo straordinario Esessions Strings Quartet e mixato con grande padronanza, nei celebri studi londinesi (quelli dei Beatles e di Star Wars) di Abbey Road, dal tecnico del suono Christian Wright, impiegato nelle produzioni di colonne sonore quali quella del vincitore dell’Oscar Steven Price, Gravity, due film di Harry Potter e The Master, composto da Jonny Greenwood dei Radiohead. Il CD ed il vinile, contenente però 12 tracce a differenza del compact disc che ne ha 17, sono presentati dalla frase del compositore Michael Price (SherlockUnforgottenDracula) con queste parole: “Un bellissimo progetto, pieno di vita, gioia e vitalità.”: frase che coglie pienamente il senso compositivo ed il perché di tale operazione discografica del suo autore. Un album tutto da sentire con la serenità del caso e la dovuta attenzione che merita. “Bycicle Promenande” ha un sapore orientaleggiante nel suo leitmotiv immediatamente orecchiabile e lieve come la brezza dolce primaverile che accarezza il viso pedalando in bici per sentieri pianeggianti o viuzze di paesini marittimi. Qualche nota che nelle sue evoluzioni potrebbe rammentare composizioni appaganti di Sakamoto a braccetto con la spensieratezza di Nyman per panorami quieti ma contorti di Greenaway. “French Dream” suona drammaticamente melò con intromissioni classiche di tanta scuola cine-musicale di Riz Ortolani, Bruno Coulais e Georges Delerue, soprattutto nella seconda metà del brano, con quei pizzicati e il violino accorato che espone il tema affranto, come può esserlo un amore desiderato e mai concretizzato. “Quiet Please” è di una gradevolezza piangente che gli archi in controcanto l’uno con l’altro restituiscono in tutta la sua splendida aura tardoromantica e nel medesimo tempo modernamente minimale. “In una rete di linee” è un crescendo di virtuosi contrappunti degli archi che bisticciano, battibeccano, si punzecchiano, passando da un tono arabeggiante a un sovra tono in prevalenza da tango argentino (citare Astor Piazzolla è scontato!) forsennato ed eseguito in maniera magistrale, come magistrale è la scrittura di Sensini del pezzo: da applausi scroscianti! “Some Kind of Freedom” parte con pizzicati che sono il preambolo elegiaco dell’entrata del violino solista e di seguito di un secondo violino che in controcanto eseguono un tema di legrandiana soavità, con accenti di desolante amarezza che però non frena un ‘qualche tipo di libertà’. “La stanza di Vanni”, dopo alcuni ascolti reiterati, appare come un inedito di Leonard Bernstein, di quelle sue opere sinfoniche, qui reinterpretate da un quartetto d’archi, dalla bellezza compositiva abbacinante e dall’emotività interiore colpita e disgregata in tutte le sue false certezze: pezzo di enorme bravura di scrittura e d’esecuzione. “Sweet Sadness”, che viene subito dopo nella track list, sembra essere l’evoluzione ancora più affranta e senza soluzione di rivalsa del brano bernsteiniano precedente, con quel suo tema cantabile, liricamente disperato. “The Fairy Garden” ha un incedere desolante, con archi stridenti e pizzicati decisi che sul finire grida resurrezione, rischiarando, tra semi atonalità e tonalità mescolate diligentemente, le pregevoli armonie interpretative del quartetto. “Erewhon” è un canto liturgico e austero nel quale vi è una sorta di diroccato gioco a rimpiattino degli archi. “John Jerry” già dal titolo esplica il sentito omaggio al John Barry di Un uomo da marciapiede e il Jerry Goldsmith di Chinatown in un mash-up originale, divertente e citazionista con affetto riverente. “Random Encouter” suona pastorale con quel senso bucolico celtico di un’era musicale oramai lontana ma non per questo dimenticata e non più udibile; anzi viva dentro chi ha studi accademici e propri seri e riportabili con grande abilità su spartito. “Parche” è un Michael Nyman di Lezioni di piano decostruito e rinnovato con una tal grazia da far apparire il susseguirsi delle note come un viaggio colorato, sereno e meditabondo che si desidera ardentemente non finisca più; un viaggio del destino filato dalle parche, per l’appunto, di dantesca memoria: «Ma perché lei che dì e notte fila, non gli avea tratta ancora la conocchia, che Cloto impone a ciascuno e compila…» (Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXI, 25 – 27). “Changeling Lullaby” è morriconiano di quel morriconismo lievemente cullante e dissacrante al contempo tipico di tante colonne sonore di genere anni ’70. “Lles fleures du mal” si presenta solo all’apparenza un esercizio di stile compositivo dai toni gravi e melanconicamente minimalisti alla Glass, in realtà un compendio herrmanniano di disciplinata e chiara referenza, con un finale glassiano robustamente incisivo. “The Shapes of Memory” è un cantabile barocco bachiano celato dietro preponderanti appendici armoniche di tanto melodramma italiano tra Verdi e Puccini. “The White Ship” ci conduce, prima del compimento dell’album, in approdi enfatici e gioiosi, memori di tanta tradizione musicale celtica con un ammiccamento al melodismo orientale di Sakamoto mescolato all’epicità ancestrale di Miklós Rózsa dei peplum biblici della Golden Age Hollywoodiana. “Waiting for Godot” chiude questo clamoroso CD con un irrequieto, sospettoso e cardiaco incedere degli archi tra pizzicato, sottolineature e un inciso tematico che vorrebbe farsi reale ma rimane contemplativo e distaccato come in ‘attesa’, quell’attesa perno del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett e che il titolo del brano sottolinea a chiare lettere.
Chiudiamo con il commento all’album del critico Sergio Bassetti di cui condividiamo ogni singola parola e che speriamo di aver colto nella nostra recensione: “Per introdurci nel suo mondo, nella prima traccia Kristian ci offre una bicicletta vivace e colorata, che incoraggia immediatamente una pedalata rilassata e un atteggiamento di ascolto contemplativo. Dopo poco più di un’ora di ondate scintillanti e ritiri languidi, l’ultimo quartetto ci porta direttamente all’emblema dell’impossibilità di un traguardo, di un punto di arrivo: quel “Godot” di Beckett, che significa l’inutilità dell’attesa e di aspettative. Si potrebbe quindi dedurre che un percorso così deliberatamente inconcludente, quasi bloccato e mutilato da una prospettiva definita dal suo stesso autore, equivale a una strada senza uscita o una bottiglia senza traccia di un messaggio. Tuttavia, non si potrebbe essere più lontani dal senso di permeabilità di KuartetS: come nel vivere sé stesso, non è la destinazione né la lezione presunta che conta, ma il viaggio (qui musicale), sempre così nuovo e imprevedibile. E per di più, in questo suo sforzo – che ha anche la grazia di ciò che si ottiene senza sforzo – Kristian, che è un compositore esperto al servizio di immagini in movimento, questa volta soddisfa solo le sue esigenze e le urgenze dei suoi stessi sentimenti. E le 17 risposte che dà a sé stesso e a noi sono tutte belle: sono reinterpretazioni personali della tradizione della musica da camera del ventesimo secolo, sospesa tra minimalismo e nebbie celtiche, tra la Vecchia Europa e il Nuovo Mondo, tra Philip Glass e Tin Hat Trio. Ma c’è molto di più: devi solo salire sulla bici e guidare quei 66 minuti di puro piacere d’ascolto.

Kuartets - Colonne Sonore